[vc_row][vc_column icons_position=”left”][vc_column_text]Nei primi tre anni di vita il bambino si specchia continuamente nell’adulto per conoscere se stesso e il mondo. Come regolarsi, però, ora che la mascherina si frappone fra lui e gli altri?

 

Per formare la propria identità nei primi tre anni di vita il bambino utilizza il corpo e la relazione con l’altro. In epoca Covid, però, l’altro porta con sé un elemento in più, la mascherina. “Il piccolo, quindi, vede il suo corpo libero, senza dispositivi, rispetto a quello dell’adulto: una differenza che, da un lato gli permette di percepirsi come un sé distinto, dall’altro rappresenta un limite per il suo sviluppo perché non riesce a rispecchiarsi nell’altro, ad avere le rassicurazioni a cui è abituato a casa, proprio quando si ritrova fuori dal suo contesto sicuro, con più incognite e più imprevisti, e quel sorriso sarebbe di grande aiuto”, spiega Marta Rizzi, psicologa e psicoterapeuta. Se nei primi 9 mesi, quando si parla di esogestazione, il bambino è ancora un unicum con la madre e con lei si sintonizza, dopo i 9 mesi è giusto che inizi a differenziarsi, con l’aiuto di mamma e papà e nel rispetto della sua individualità e della sua unicità.

 

Cosa pensa il bambino

I piccoli di questa fascia d’età, dai primi mesi fino ai 3 anni, si conoscono con e attraverso l’altro. Perciò in un contesto di questo tipo potrebbero pensare: “Wow! I grandi hanno questa cosa sulla bocca e io no…vuol dire che sono diverso da loro. Anche se quella cosa, mamma, non mi permette di capirti quando non siamo a casa. E poi, perché non mi sorridi quando siamo fuori?”. Ma anche: “Posso imparare solo se sbaglio, per favore lasciami fare”.

 

Cosa pensano i genitori

Tra adulti e bambini, in questo momento, c’è una sorta di disallineamento. Per questo mamma e papà pensano: “Ho paura quando tocchi in giro, vai e ti muovi, non voglio che tu ti faccia male, ti prego stai fermo”. Ancora: “Perché quando ti sorrido non mi rispondi come fai quando siamo a casa? Perché quando metto la mascherina me la vuoi togliere?”.

 

Come sentirsi tutti meglio

  • Innanzitutto, focalizzandoci sul corpo: il bambino deve potersi toccare e conoscersi attraverso il corpo. “C’è un gioco che si può fare: si mette un pallino di rossetto sul naso al piccolo e lo si mette davanti a uno specchio per capire il suo grado di individualità”, racconta Marta Rizzi. “Se, incuriosito, tocca lo specchio vuol dire che ancora non si percepisce nella sua immagine riflessa, se invece sii tocca il naso significa che ha un buon grado di individualità”.
  • Aiutare il bambino a capire che è diverso dall’altro gli consente di avere più sicurezza in sé e nelle sue competenze, presupposto che è la base dell’autostima. “Verso i due anni può essere utile incentivare il gioco simbolico, il fare finta di, l’inventarsi scenari e storie: mettiamo a sua disposizione una grande scatola con travestimenti, pezzi di stoffa o vestiti di mamma e papà, in modo che possa immedesimarsi in chi desidera e creare storie. In questo periodo, infatti, si sviluppa la teoria della mente, cioè la capacità di immaginare quello che fanno gli altri e il loro stato mentale, che poi è la base per sviluppare successivamente l’empatia”, sottolinea la psicologa.
  • Mentre il bambino sperimenta la sua individualità, poi, è importante riconoscere la sua unicità. “Se lo etichettiamo (sei un terremoto, un pasticcione, un fifone) di fatto lo limitiamo”, spiega l’esperta. “Il bambino è portato a tentare di aderire all’etichetta, a non permettersi di sperimentarsi in altro modo, ma a confermare le caratteristiche il genitore gli ha attribuito”. Meglio evitare anche paragoni con altre persone, con frasi tipo “sei tutto la mamma” o “hai gli occhi dello zio”, perché in questo modo non gli si riconosce che è unico.
  • Altro consiglio: non imitarlo, fargli il verso o ridere, magari quando inizia a parlare e usa parole storpiate, e non correggerlo, ne andrebbe della sua autostima. Se proprio sentiamo il bisogno di ripetere la parola (anche se in questo momento è ancora presto, non c’è un reale bisogno) non diciamo “no, non si dice così”, ma troviamo il modo di formulare una frase o una domanda in cui inserire la parola corretta. Mettiamoli piuttosto a loro agio, in modo che parlino liberamente.
  • Infine, dato che iniziano a sviluppare la propria identità esplorando, sperimentando, e per cui anche sbagliando, è indispensabile legittimare l’errore. Per cui non sgridiamolo, umiliamolo, o puniamolo se, nel tentativo di versarsi un bicchiere d’acqua, bagna ovunque. Piuttosto valorizziamo l’intenzione, diciamogli che solo provando può capire come si fa. E mettiamoci nei suoi panni per trovare un’alternativa adatta alle sue capacità, ad esempio procurandoci una brocca piccola, che può maneggiare meglio, e mettendo dello scotch colorato sul bicchiere per segnare il livello massimo. In questo modo può vedere il nostro entusiasmo, sentire il nostro supporto e acquisire più fiducia in sé.
  • Uno morbido, in cui trovare rassicurazione, coccole, protezione e calore. Uno spazio per il gioco di immaginazione, con travestimenti, stoffe e vecchi abiti che il bambino possa usare per il gioco simbolico, durante il quale esprimere tutto quello che vive e assorbe, ma che non riesce a tirare fuori a parole. Infine, uno spazio con libri e albi illustrati, per un momento di coinvolgimento e riflessione. “Gli albi illustrati, che lasciano grande spazio a immagini di qualità supportate da testi brevi e semplici, non hanno una morale, ma raccontano un quotidiano in cui il bambino riesce a rispecchiarsi. Per questo sono tranquillizzanti, perché è come se normalizzassero le varie situazioni”, sottolinea la psicologa. “Sono storie che il bambino può leggere in autonomia, grazie alle immagini evocative, ma in presenza dell’adulto la stessa storia si arricchisce e permette un momento di contatto e condivisione prezioso, anche per il genitore, che sullo spunto dato dalla storia può parlare di sé e di quello che prova”.
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