Quando il bimbo riesce molto bene in uno sport, è facile iniziare a pensare all’agonismo. Non senza dubbi e perplessità, per l’impegno richiesto e i possibili ostacoli. Ecco i consigli dell’esperta per affrontare al meglio il cambiamento.

Quando il bambino ha una passione per uno sport, deve essere sereno e divertito nel praticarlo. Se, oltre a questo, mostra di avere anche un talento spiccato, è possibile che tra la fine delle elementari e l’inizio delle scuole medie si possa valutare il passaggio all’agonismo. Un cambiamento, però, che deve avvenire solo dopo aver valutato insieme al bambino tutte le condizioni, se lui si sente di frequentarlo con impegno, ma anche con gioia e un po’ di leggerezza, e se effettivamente c’è una dote. “Mai proiettare sui figli degli irrisolti nostri”, avverte Marta Rizzi, psicologa e psicoterapeuta. “Meglio evitare di sottoporli a frustrazioni e fallimenti solo perché abbiamo l’ambizione di avere almeno uno sportivo in casa…”.
Attenzione anche a non far perdere un’occasione al bambino solo per la paura che lo sport agonistico possa essere eccessivo o stressante. “In realtà può offrire anche grandi vantaggi”, spiega l’esperta. “Tra questi, uno sviluppo fisico e motorio di un certo tipo, la possibilità di superare limiti, incertezze e paure grazie al rafforzamento dell’autostima e della sicurezza in se stessi, e la capacità di stare in gruppo”. Importantissimo, poi, un altro aspetto: l’attività fisica intensa e costante crea anche una gratificazione che può proteggere dalla ricerca del benessere trasgressivo, una sorta di barriera dal mondo di droghe ed eccessi che può coinvolgere i preadolescenti. La produzione di un’elevata quantità di ormoni del piacere che si verifica facendo sport, fa in modo che i ragazzini non sentano la necessità di cercarli altrove.

 

Cosa pensano i genitori

Possono esserci timori sull’equilibrio e la stabilità, sullo sviluppo psicofisico del bambino, per cui: “Sarebbe un peccato buttare tutto all’aria, ma non voglio che lui sia troppo impegnato o stressato. E se non riuscisse a reggere le pressioni? Se incidesse sul suo sviluppo?”. Ma può anche esserci la proiezione di quello che non si è raggiunto in prima persona: “Sarebbe bello che uno di noi portasse avanti il DNA sportivo della famiglia… io mi sono rotto una gamba, altrimenti sarei diventato di certo un campione”.

 

Cosa pensa il bambino

Scegliere di passare all’agonismo potrebbe essere un modo per sentirsi accettato dai genitori, per avere una prova del loro affetto: “Vedo mamma e papà soddisfatti di me, devo dare ancora di più altrimenti ci restano male”. Ma può anche capitare che questo cambiamento crei dei dubbi, che sia vissuto dal bambino come una rinuncia al gioco dell’infanzia: “Mi mancano i miei amici, forse dovevo continuare a giocare all’oratorio, ma tutti dicono che sono bravo…”.

 

Come sentirsi tutti meglio

  • Per prima cosa, parlare con il bambino, capire cosa desidera e cosa pensa, tenendo bene a mente che ha delle caratteristiche, un determinato tipo di carattere e di temperamento, e che non tutti sono pronti e portati a fare agonismo. C’è anche chi è dotato, ma ha un temperamento non così strutturato, è timido e insicuro e sarebbe eccessivamente esposto allo stress. “Per decidere insieme bisogna spiegare bene in cosa consiste l’impegno: a questa età i bambini riescono già ad avere una proiezione a lungo termine e a capire che ogni azione ha delle conseguenze, quindi sono in grado di capire e di scegliere”, suggerisce Marta Rizzi.
  • Fare in modo che ogni allenamento sia fonte di divertimento: lo sport, anche agonistico, non deve essere un lavoro a questa età. È importante far capire al bambino che deve ambire a dare il meglio di sé e delle sue capacità, ma che non deve per forza vincere: mirare solo alla vittoria, senza essere capace di accettare l’insuccesso, non permette di migliorare gradualmente e di conoscersi.
  • Slegare il valore del bambino dal risultato: se si paragona al suo risultato, il rischio è che possa essere portato all’autosvalutazione e a una bassa autostima. “Di fronte alle sconfitte, i genitori devono sempre incoraggiare, mostrare altri successi, ricordare al bambino quali sono le sue qualità e le sue potenzialità, per evitare che si attribuisca l’insuccesso come un fallimento personale e che la sua identità venga intaccata nel profondo”, raccomanda la psicologa. “Può essere di grande aiuto ragionare insieme al bambino per capire dove avrebbe potuto secondo lui fare di meglio, o in cosa non si è piaciuto, chiedendogli anche se è soddisfatto di sé e se ha dato e fatto quello che desiderava o tutto ciò che era in grado di fare”.
  • I valori dello sport sono legati al rispetto, all’inclusione al fair play: spetta anche ai genitori alimentare in modo costruttivo la competitività, senza che si umilino o sviliscano gli avversari.
  • È importante che mamma e papà si impegnino per mantenere vive le altre attività relazionali e sociali del bambino perché lo sport deve essere una delle attività, non tutta la sua vita. Ai bambini servono anche il gioco destrutturato e il rapporto con i suoi pari libero da obbiettivi e giudizi.
  • Se vuole smettere, se per lui lo sport è diventato fonte di tensione, una pressione eccessiva, è giusto dargli la possibilità di interrompere o di prendere le cose un po’ più alla leggera. “Non bisogna proiettarsi, ma ascoltarlo, cercando di capire quali possono essere le ragioni del suo desiderio”, consiglia Marta Rizzi. “Solo così sarà possibile capire se c’è un modo per rivedere l’organizzazione, se ci sono altre modalità, anche solo per un periodo, per evitare che l’agonismo venga avvertito fin da subito come un lavoro: è vero che potrà diventarlo, ma prima deve affiancarsi alle loro attività e non sostituirsi ad esse”.
  • Infine, monitorare possibili segnali di disagio e chiedere velocemente aiuto a un professionista, se per lui lo sport è diventato fonte di tensione, una pressione ecce. “Il livello di pressione che si può creare (con allenatori o compagni) può essere elevato e il bambino potrebbe non riuscire a esprimerlo a parole, ma solo attraverso dei disagi, come disturbi sonno, aggressività, ansia, irritabilità, ma anche demotivazione (tristezza che permane nel tempo) o, peggio, un’autosvalutazione a macchia d’olio, che non riguarda cioè solo lo sport, ma tutta la sua personalità”, conclude l’esperta.

 

Articolo redatto in collaborazione con Quimamme